vendredi 6 avril 2012

Quelle torce umane che non riescono a bruciare il silenzio/Ces torches humaines qui ne parviennent pas à éclairer la nuit

di Annamaria Rivera, 3/4/2012

Il 25 febbraio scorso un immigrato tunisino, del quale ignoriamo il nome, la biografia e la sorte, si dà fuoco a Genova, nella stazione di Brignole. Da una frase scarna che la cronaca ci restituisce possiamo immaginare che fosse rimasto senza lavoro e senza alloggio.
Il suicidio col fuoco, si sa, è un grido di protesta disperato, è una pretesa di rispetto e dignità. E’ il mezzo ultimo e plateale cui ricorrono i senza potere e senza voce, per spezzare il silenzio e attirare l’attenzione pubblica su un’ingiustizia o un’umiliazione, personale o collettiva. Dietro ogni suicidio, ancor più se col fuoco, c’è l’intento di comunicare e di mettere in discussione violentemente un ordine relazionale e/o sociale sentito e vissuto come ingiusto o annichilente, perciò insopportabile.

Per il nostro tunisino senza nome, invece, l’atto di annientarsi in pubblico nel modo più atroce possibile è stato l’ennesimo ed estremo fallimento personale. Definito sbrigativamente “clochard” o col più pudico “senza tetto”, egli non ha meritato altro che quattro righe d’agenzia. Il Secolo XIX, quotidiano genovese, ha pensato che fossero troppe, sicché ha ripreso la notizia in modo ancor più conciso, a dimostrazione non solo della noncuranza verso gli ultimi fra gli ultimi, ma anche dello scarso mestiere di certi giornalisti d’oggi.

In un altro caso, accaduto a Torino l’8 marzo 2012, la nazionalità italiana non è valsa alla vittima molto di più, se non la menzione del nome e pochi altri dettagli: Gaetano Menale, muratore di 59 anni, padre di tre figli, disperato per aver perso il lavoro, si uccide dandosi fuoco nel parco della Colletta, nel cuore della città. Qualche riga in più meriterà un giovane muratore marocchino, egli pure senza nome: privato del salario da quattro mesi, il 28 marzo scorso si fa torcia umana a Verona, davanti al Municipio. Quando a togliersi la vita per protesta e disperazione è anche qualche cittadino più rispettabile, commercianti o piccoli imprenditori, meglio se di cittadinanza italiana, strozzati dai debiti e dalla brutale avidità delle banche, allora sì che i media cominciano a prestare attenzione a questa catena tragica di suicidi.

Per meglio dire, è un’angosciosa sequela di suicidati, poiché uccisi non solo dalla crisi economica e finanziaria, ma soprattutto dai modi in cui essa è “governata” dai tecnici della recessione e della macelleria sociale: maschere impassibili e spietate, nel senso letterale del termine, cioè incapaci di pietas, prigionieri come sono del loro fortino di privilegi, ottusi come sono, poiché incapaci d’immaginare che, oltre il loro ghetto dorato, oltre i diktat dei despoti della finanza, oltre i comitati d’affari della borghesia e gli interessi dei padroni del vapore, v’è un mondo sociale fatto di persone in carne e ossa, coi loro bisogni materiali, la loro esigenza di dignità, le loro sofferenze e disperazioni.

Il “senza tetto” tunisino di Genova, il muratore torinese di nazionalità italiana, il giovane muratore marocchino non sono state le prime torce umane, né saranno le ultime, nell’Italia flagellata dalla recessione, dalla disoccupazione, da un calo vertiginoso dei salari, da un drammatico processo d’impoverimento che arriva a investire anche i ceti medi. A precederli, come spesso accade per tutti i fenomeni sociali, erano state alcune persone immigrate: a Palermo, il 10 febbraio 2011, Noureddine Adnane, venditore ambulante marocchino, si dà fuoco in piazza, per ragioni e in circostanze del tutto simili a quelle di Mohamed Bouazizi, la “scintilla” della rivoluzione tunisina; il 16 marzo 2011, a Vittoria, in provincia di Ragusa, Georg Semir, bracciante albanese, anch’egli privato del salario da molti mesi, si fa torcia umana di fronte al Teatro comunale. L’uno e l’altro moriranno dopo alcuni giorni di agonia (vedi qui)

Se i giornalisti, i commentatori, gli “esperti”, gli studiosi nostrani avessero vista lunga,
avrebbero compreso che il fenomeno crescente delle auto-immolazioni di protesta che attraversa i paesi del Maghreb e del Mashreq è cosa che parla di noi stessi e a noi stessi. Avrebbero potuto intuire che presto sarebbe arrivato anche da noi, e non solo sotto le sembianze di qualche povero immigrato senza nome e senza importanza. E’ singolare che neppure i meno grezzi fra coloro che assai di recente hanno preso a commentare questa tragedia sociale (penso ad Adriano Sofri*) l’abbiano messa in rapporto con quel che accade sull’altra sponda del Mediterraneo. Lì non è bastata una rivoluzione, quella contro il regime dittatoriale e mafioso di Ben Ali, ad aver ragione dei flagelli economici e sociali prodotti dall’ultra-liberismo e dai diktat della finanza e degli organismi internazionali al suo servizio. Ci vuole ben altro che la caduta di un dittatore per sovvertire i meccanismi neoliberisti che, insieme alle rapine perpetrate dal regime, hanno condotto alcune regioni a tassi di povertà assoluta e di disoccupazione vicini al trenta per cento.

La sequela di torce umane dell’altra sponda parla a noi stessi anche in un altro senso. Essa è, fra l’altro, un sintomo del fallimento della politica. Quando si è non solo colpiti pesantemente dalla crisi economica ma anche disprezzati dalle autorità pubbliche e ignorati dalle élite politiche, è allora che ci si sente condannati all’insignificanza sociale, quindi del proprio sé e della propria parola. L’autodistruzione è concepita allora, paradossalmente, come il solo modo per “prendere la parola” e tentare d’imporla pubblicamente. Talvolta, però, neppure il grido di una torcia umana, vox clamans in deserto, è sufficiente a richiamare l’attenzione sul baratro verso il quale ci stanno precipitando.

*Adriano Sofri,La Spoon River della crisi, La Repubblica, 30 marzo 2012

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Traduction française de Fausto Giudice, Tlaxcala
Le 25 février dernier, un immigré tunisien dont on ignore tout –nom, biographie, destin -, s’immole par le feu à la gare de Brignole à Gênes. On peut imaginer, à partir d’une brève phrase rapportée par la presse, qu’il s’était retrouvé sans travail et sans logement.
Le suicide par le feu, on le sait, est un cri de protestation désespéré, une demande de respect et de dignité. C’est le recours ultime et spectaculaire des sans-pouvoir et sans –voix, pour briser le silence et attirer l’attention publique sur une injustice ou une humiliation, personnelle ou collective. Derrière chaque suicide, surtout si c’est par le feu, il y a une intention de communiquer et de remettre violemment en question un ordre relationnel et/ou social ressenti ou vécu comme injuste et annihilateur, donc insupportable.
Pour notre Tunisien sans nom, en revanche, l’acte consistant à se supprimer en public de la manière la plus atroce possible a été l’énième et ultime échec personnel. Défini hâtivement comme « clochard » ou plus pudiquement « SDF », il n’a eu droit qu’à quatre lignes de dépêche. Le quotidien gênois Il Secolo XIX a estime que même ces quatre lignes, c’était encore trop et il adonc repris l’information de manière encore plus concise, comme pour démontrer une fois de plus le peu de cas que l’on fait des derniers parmi les derniers mais aussi de la misère d’un certain journalisme.
Dans un autre cas, survenu à Turin le 8 mars 2012, sa nationalité italienne n’a pas valu à la victime beaucoup plus, si ce n’est la mention de son nom et de quelques rares autres détails : Gaetano Menale, maçon, 59 ans, père de trois enfants, désespérée d’vaoir perdu son travail, se donne la mort par le feu dans le parc de la Colletta, au cœur de la ville. Un jeune maçon marocain, lui aussi sans nom, aura droit à quelques lignes de plus : privé de son salaire depuis quatre mois, il se transforme en torche humaine à Vérone, devant la mairie, le 28 mars dernier. Mais que ceux qui mettent fin à leurs jours pour protester ou par désespoir soient des commerçants ou des petits entrepreneurs, de préférence italiens, étranglés par les dettes et l’avidité brutale des banques, et voilà les médias qui commencent à prêter attention à cette chaîne tragique de suicides.
Il faudrait plutôt parler d’une série de cas de gens suicidés, qui ont été tués non seulement par la crise économique et financière, mais avant tout par la manière dont celle-ci est « gouvernée » par les techniciens de la récession et de la boucherie sociale : masques impassibles et impitoyables [spietate dans l’original italien, NdT] au sens littéral du terme, autrement dit incapables de pietas [pitié en latin, NdT], prisonniers qu’ils sont de leur bunker de privilèges, obtus qu’ils sont, puisqu’incapables d’imaginer qu’en dehors de leur ghetto doré, au-delà des diktats des despotes de la finance, au-delà des conseils d’administration de la bourgeoisie et des intérêts des nababs, il existe un monde social fait de personnes en chaire et en os, avec leurs besoins matériels, leur exigence de dignité, les souffrances et leurs raisons de désespérer.
Le « SDF » tunisien de Gênes, le maçon turinois de nationalité italienne, le jeune maçon marocain n’ont pas été les premières torches humaines, ni les dernières, dans cette Italie frappée du fléau de la récession, du chômage, de la chute vertigineuse des salaires, et d’un processus dramatique de paupérisation qui parvient même à atteindre même les classes moyennes. Ils avaient été précédés, comme cela arrive souvent pour de nombreux phénomènes sociaux, par des personnes immigrées : à Palerme, le 10 février 2011, Noureddine Adnane, marchand ambulant marocain, s’immole par le feu en pleine rue, pour des raisons et dans des circonstances en tous points similaires à celles de Mohamed Bouazizi, « l’étincelle » de la révolution tunisienne ; le 16 mars 2011, à Vittoria, dans la province de Raguse (Sicile), Georg Semir, ouvrier agricole albanais, lui aussi privé de salaire depuis de longs mois, s’immole devant le théâtre muncipal. Tous deux mourront après quelques jours d’agonie. (lire ici)
Si les journalistes, les commentateurs, les “experts”, les chercheurs n’avaient pas une si courte vue, ils auraient compris que le phénomène croissant des auto-immolations de protestation qui traverse les pays du Maghreb et du Machrek est quelque chose qui nous parle à nous-mêmes, et de nous-mêmes. Ils auraient pu pressentir qu’il arriverait bientôt chez nous, et pas seulement sous les traits d’un quelconque pauvre immigré sans nom et sans importance. Il est curieux que même les moins balourds parmi ceux qui ont publié des commentaires sur cette tragédie sociale – je pense à Adriano Sofri *– n’aient pas pensé à la mettre en relation avec ce qui se passe sur l’autre rive de la Méditerranée. Là-bas, une révolution contre la dictature mafieuse de Ben Ali n’a pas suffi à avoir raison des fléaux économiques et sociaux engendrés par l’ultralibéralisme et par le diktat de la finance et des organismes internationaux à son service. Il faut bien plus que la chute d’un dictateur pour subvertir les mécanismes néolibéraux qui, associés à la prédation exercée par le régime, ont conduit certaines régions à des taux de pauvreté absolue et de chômage proche des 30%.
Les torches humaines en série de l’autre rive nous parlent aussi dans un autre sens. Elles sont entre autres un symptôme de la faillite de la politique. Quand on est non seulement frappés lourdement par la crise économique mais aussi méprisés par les autorités publiques et ignorés par les élites politiques, on se sent alors condamnés à l’insignifiance sociale, niés dans son être, privés de paarole. L’autodestruction est alors conçue, paradoxalement, comme l’unique manière de « prendre la parole » et tenter de l’imposer publiquement.

Mais il y a de fortes chances que même le cri d’une torche humaine, vox clamans in deserto (La voix de celui qui crie dans le désert), ne soit pas suffisant à attirer l’attention sur le gouffre vers lequel on est en train de nous précipiter.

*Adriano Sofri, 70 ans, ancien dirigeant du groupe révolutionnaire Lotta Continua, condamné en 2000 à 22 ans de prison pour l’accusation d’avoir commandité l’assassinat en 1972 – dont il s’est toujours proclamé innocent – du commissaire de police Luigi Calabresi, considéré comme responsable de la mort par défénestration de l’anarchiste en décembre 1969. Dans un article intitulé La Spoon River della crisi, paru dans La Repubblica du 30 mars 2012, il rapproche la longue série de suicides par le feu en Italie, de travailleurs surexploités, de chômeurs, d’artisans et de petits entrepreneurs, des auto-immolations de Tibétains. [NdT]

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